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Chaosmografie III. Escatologia
di Jacopo Valli






Danse macabre?


[...] Ce corps dansant semble ignorer le reste, ne rien savoir de tout ce qui l’environne. On dirait qu’il s’écoute et n’écoute que soi; on dirait qu’il ne voit rien, et que les yeux qu’il porte ne sont que des joyaux, de ces bijoux inconnus dont parle Baudelaire, des lueurs qui ne lui servent de rien.

C’est donc bien que la danseuse est dans un autre monde, qui n’est plus celui qui se peint de nos regards, mais celui qu’elle tisse de ses pas et construit de ses gestes. Mais, dans ce monde-là, il n’y a point de but extérieur aux actes; il n’y a pas d’objet à saisir, à rejoindre ou à repousser ou à fuir, un objet qui termine exactement une action et donne aux mouvements, d’abord, une direction et une coordination extérieures, et ensuite une conclusion nette et certaine.

Ce n’est pas tout: ici, point d’imprévu; s’il paraît quelquefois que l’être dansant agit comme devant un incident imprévu, cet imprévu fait partie d’une prévision très évidente. Tout se passe comme si... Mais rien de plus!

Donc, ni but, ni incidents véritables, point d’extériorité...

(Paul Valéry)

Otto Weininger sosteneva che la danza fosse un movimento tipicamente femminile, ed essenzialmente proprio della prostituzione: il movimento circolare [pensava al Valzer] limiterebbe e condizionerebbe la libertà; la ripetizione dell’uguale comporterebbe o il ridicolo o la sgradevolezza. Solo la volontà dell’Assoluto sarebbe la vera fonte del bisogno di immortlità, e questa si esprime nella linea retta.

Il movimento circolare è completamente amorale. Girarsi nei cerchi è inutile e folle come è di perfida natura chi si rigiri sulle punte...

Contro Weininger: un movimento lineare, assolutamente costituito, per mantenersi nella sua stabilità di “glorioso corpo” eludente le inesorabilmente a sé intestine e vitali reiterazioni processuali apoptotiche generanti trasmutazioni differenzianti per impermanenza, ripete sé, nella forma di cui cocciutamente si dota, fino a eterna nausea.

Ogni forma chiusa tende all’infinità; ogni forma infinita è negazione dell’Infinito — del possibile, dell’inesauribile danzerina potenza in atto perpetuamente differenziantesi formale/sostanziale — è inespugnabile bastiglia.

Il movimento circolare, proprio anche dei ritmi tribali e delle forme espressive minimaliste degli anni Sessanta — à la Steve Reich, à la Terry Riley, per esempio — può darsi e si dà in una forma di ripetizione variante che debella il senso [e, per conseguenza, la morale, confessando amoralità: l’immoralità deprecata da Weininger] e la costruzione formale, caricando se stesso fino a dissolversi deregolandosi come per autoregolazione interna.

L’inutilità — questa sì, assoluta — del circolo che È e che solo in-sé-per-sé-attraverso-sé danza generandosi nel molteplice scansante la posa, la fissità — questa sì, sgradevole; talora ridicola — ha l’eleganza del corpo di Bhairava/Bhairavi che È; tremenda eleganza del gatto abissino, e di certe troie di Toulouse-Lautrec.


Geometric Horsehair, Untitled, 2013



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